OLTRE IL SENSO – L’arte che ragiona sulla fruizione dell’arte
Viviamo immersi in stimoli visivi e uditivi rapidissimi, ciò che prima si raccontava in ore e giorni adesso attraversa il nostro corpo in pochi secondi. Il silenzio della pittura e della scultura del passato faticano a stimolare i sensi delle generazioni più giovani e richiedono curiosità e studio per aumentare i livelli di lettura e poterne godere al massimo.
Come tutti anche io vivo immerso nella tecnologia, me ne servo e la elaboro per creare nuovi mondi artistici. Quando con la squadra di Spaziomusica abbiamo iniziato a lavorare per OLTRE IL SENSO, abbiamo progetto il percorso su due binari: artistico e divulgativo. Abbiamo infatti lavorato alla creazione di nuove opere, ma abbiamo posto grande attenzione anche alla valorizzazione del patrimonio artistico già presente nell’isola, ragionando sulle nuove strategie di fruizione rese possibili dalla tecnologia.
OLTRE IL SENSO è diventato quindi un ambiente immersivo e multipercettivo che rielabora alcune opere scelte dalle raccolte dei Musei Civici di Cagliari (Collezione Ingrao, Collezione Ugo, Collezione Artisti Sardi). La musica e il suono hanno invece il ruolo di trasformare il nostro immaginario facendo da guida sonora insolita. Davanti ad un’opera d’arte, infatti, il sonoro può cambiare il nostro modo di percepirla, permettendoci di vedere altro.
Ho passato tanti giorni a fotografare, animare e sensorizzare i ritratti di tanti artisti, i loro sguardi vitrei hanno preso vita fino a diventare sempre più reali. Affezionarsi a quei volti, dopo tanti mesi passati insieme, è diventato naturale. I ritratti ci guardano ma a loro volta sono richiamati dalle nostre azioni e interagiscono con la nostra presenza attraverso i dati forniti da sensori e microcontrollori. Da questo processo è nata l’installazione QUESTIONE DI SGUARDI: si tratta di un’inversione dirompente del punto di vista, le opere ci restituiscono il loro sguardo, sono i visitatori a diventare protagonisti. Vi invito a pensare al modo in cui le immagini agiscono su di noi e noi agiamo sulle immagini, la vista è centrale anche nel linguaggio delle metafore, parliamo della nostra “visione” del mondo, di avere una prospettiva (vedere avanti), oppure di introspezione (guardarsi dentro). Lo sguardo è una relazione tra noi e ciò che osserviamo, non osserviamo mai solo una cosa, guardiamo sempre al rapporto tra le cose e noi stessi. Alcune antiche tradizioni indigene sono convinte che il mondo percepisca i nostri sguardi e ci guardi a sua volta, anche gli alberi e i cespugli, anche le rocce. Con un gioco di parole possiamo affermare che l’esperienza dell’arte ci guarda, o meglio ci ri-guarda, cioè restituisce uno sguardo su di noi in cui possiamo osservarci come siamo realmente, non come pensiamo di essere, ma come siamo intimamente. Scrive Anaïs Nin a questo proposito: “Non vediamo le cose come sono, vediamo le cose come siamo”.
Durante un sopralluogo al Castello ho visitato una delle torri al tramonto, quando la luce elencava i mattoni di tufo filtrando dalle finestre, prima di abbandonarli. La luce. La sua assenza. Le linee ortogonali. Mi sono subito tornati alla mente gli elementi visivi dell’opera “Spazio elastico” che Gianni Colombo realizzò per la prima volta a Graz nel 1967. Corde immerse nel buio che evocano la presenza di pareti, alterando la nostra percezione dell’orizzontalità o della verticalità. Quando gli occhi, abituati all’oscurità, d’istinto cercano un appiglio, trovano un punto di approdo nelle linee fluorescenti degli elastici bianchi. Se lo spazio elastico appare intangibile, la nostra esperienza si fa invece sempre più concreta man mano che lo esploriamo. Nasce così l’idea dell’opera IL SUONO DELLO SPAZIO: in questa versione multisensoriale dello Spazio elastico, ogni nostro tocco produce suono. Le corde diventano così parte di un’enorme arpa, i sensori ne percepiscono il movimento e attraverso i microchip lo trasmettono a servomotori che operano sulla cordiera di un pianoforte. Dello strumento rimane però solo la struttura di metallo, la cassa di risonanza di legno è sostituita dal buio dello spazio, in questo modo tutta la torre risuona e noi che il suono lo generiamo siamo dentro lo strumento stesso. La robotica diventa una protesi utile a superare il potenziale naturale del nostro corpo, ci porta a ragionare sul fatto che l’interazione tra uomo e macchina si autodetermina attraverso un processo di evoluzione interdipendente: dipendiamo dalle macchine perché le progettiamo e le realizziamo per far fronte alle nostre necessità, conseguentemente orchestriamo la nostra vita e i nostri comportamenti per soddisfare la società tecnologica che abbiamo creato. Non è un caso che la cultura cyberpunk susciti ancora grande fascinazione, non solo in ambito letterario e cinematografico ma anche in ambito artistico. Si pensi ad esempio alla ricerca di Stelarc e ai suoi esperimenti sul corpo pensato come una struttura componibile, pronta ad ospitare innesti tecnologici che possano operare, agire o addirittura evolversi autonomamente. L’opera è aperta non solo nella sua interpretazione ma anche nel suo manifestarsi e il nostro compito da artisti si conclude alla fine dell’allestimento, quando i visitatori sono finalmente invitati ad entrare e diventare parte attiva del processo artistico. «Non si tratta di creare forme a caso, ma di dare delle forme al caso», diceva Umberto Eco.
Invito anche voi a interagire con le opere e a raccontarmi che cosa i vostri sensi vi hanno raccontato!
Per maggiori informazioni sul progetto e sulle altre opere immersive vi consiglio la visita del sito https://www.oltreilsenso.org
Gli spazi del Castello di San Michele, gestiti dal Consorzio Camù, sono aperti dal martedì alla domenica, dalle ore 10.00 alle ore 13.00 e dalle ore 15.00 alle ore 20.00.